Il mio amico gelsomino e il mazzetto di San Giovanni

Le piante parlano, ascoltano, vivono in empatia con l’ambiente circostante. Eccome

Può essere che ci sia qualcuno scettico come, invece, qualcuno di voi a cui piacerebbe raccontare una sua esperienza significativa di interazione con le piante. Mi piacerebbe molto conoscere i vostri momenti di condivisione con il mondo vegetale e servirebbero di sicuro a confrontarci su un tema che mi sta molto a cuore, perché fin da bambina sono stata presa in giro per la mia predisposizione naturale all’animismo.

Ma andiamo per step. Inizio a raccontarvi io una storia realmente accaduta.

Ad aprile del 2015 è iniziato un periodo della mia vita particolarmente difficile che si è protratto fino al maggio dell’anno successivo. Quelle prove a cui la vita ti pone di fronte e che, se prese dal verso giusto, sono una palestra durissima ma inevitabile per cercare, non dico di evolvere, ma almeno di non ripetere gli stessi errori. Tra tutte le piante che avevano accompagnato i miei cambi di casa e di vita, c’era un gelsomino in vaso, con una folta chioma e i tronchi attorcigliati da un esperto vivaista.

Una meraviglia di pianta dal punto di vista estetico che prolungava la sua fioritura in una nuvola bianca sotto la quale spesso mi dedicavo alle mie meditazioni.

Oltre alle meditazioni, nel mio saluto quotidiano alle piante, per lui avevo sempre paroline di riguardo se non articolati discorsoni, dipendeva certo dal tempo a disposizione, ma anche della reciproca predisposizione alla chiacchiera. Com’era, come non era, il rapporto si consolidava.

In concomitanza con il periodo difficile le mie energie venivano sempre più prosciugate e, quelle poche, dovevano essere concentrate sulle attività produttive e di sopravvivenza, finché finalmente, l’anno successivo, sono riuscita a cambiare casa e, solo allora, mi sono accorta che il mio gelsomino non era solo deperito, molto molto peggio.

Non ho voluto vedere, l’ho fatto caricare su un furgone e depositare sul terrazzo della nuova casa, senza una parola, ma con una stretta allo stomaco, di non ben definibile origine visti i vari stimoli.

Come sempre alla fine di un trasloco, si prova una spossatezza unica, unita a un senso di spaesamento, ma nel caso specifico sono stata colta da una euforia che, pare a detta di intimi affetti, mi facesse brillare gli occhi. La prima sera nella nuova dimora, rimasta sola, mi sono seduta sul terrazzo e ho lasciato vagare i pensieri, finché il mio sguardo non si è posato sul vaso di gelsomino.

Mi sono alzata e seduta di fianco a lui, l’ho abbracciato, gli ho chiesto scusa e sono stata lì a lungo.

Il giorno dopo ho chiamato un esperto giardiniere che ne ha decretato la morte.

No. Non ero in grado di accettarlo. Non ero in grado o non era vero? Sentivo che non era vero, lo sentivo profondamente, ma arrivando da un lungo periodo in cui avevo scambiato lucciole per lanterne, difficile non essere sfiduciati su tutto e, soprattutto, sulle proprie sensazioni.

Eppure lui era lì e sembrava davvero mi chiedesse aiuto e scusa nel contempo.

Il giorno dopo ho preso cesoie affilatissime e l’ho rasato il più possibile, facendomi guidare nel taglio da lui, da me.

Alla fine c’erano i tronchi centrali e pochi rami. Era maggio. Una follia.

È rimasto così un paio di mesi, mi pare di ricordare, sicuramente ricordo benissimo tutti quelli che mi chiedevano perché tenevo un albero morto e a cui rispondevo decisa e spesso piccata che morto non era affatto.

Vi sembrerà sciocco, può essere, ma io e il gelsomino ci siamo fatti lunghi discorsi in quel tempo, mentre abbracciavo rametti secchi e carezzavo il vaso.

E alla fine hanno iniziato a spuntare foglioline e rami nuovi e, passato l’inverno sotto il velo da sposa, l’altra estate era un tripudio di foglie e quest’estate mi ha nuovamente regalato molti fiori e si sta arrampicando beato sul suo grigliato di legno.

Ci sono studi che dimostrano che le piante ascoltino e vengano influenzate, nel bene e nel male, da ciò che sentono e interagiscano di conseguenza. Sono in grado di comunicare con le piante vicine e riconoscere se chi gli cresce accanto sia un “buon vicino”, stringono alleanze, si scambiano informazioni, prendono decisioni.

Senza arrivare ai miei estremi di antropomorfizzazione o alle scelte bizzarre di Cosimo nel Barone Rampante sono, da sempre, profondamente convinta del potere taumaturgico delle piante.

La Natura ci cura in forme e modi diversi: con i colori, i profumi, l’ombra, un tronco possente da abbracciare, fresche e croccanti insalate e verdure per nutrirci o erbe miracolose con cui curarci o preparare tisane e pozioni, anche magiche.

Penso all’iperico, per esempio. Quei meravigliosi cespugli che, verso fine giugno, inondano i prati di fiori giallo-oro e che, al primo albeggiare del 24 giugno, viene raccolta, con altre sette erbe, per comporre il mazzetto di San Giovanni che scaccia il malocchio, porta fortuna e, se messo sotto il guanciale prima di andare a dormire, porta dolci sogni premonitori.

Iperico, artemisia, ruta, mentuccia, rosmarino, prezzemolo, aglio, lavanda. Sette erbe.

Sette. Numero ricorrente nei secoli dei secoli, tra druidi, sciamani, sacerdoti. Ripreso anche nella saga di Harry Potter come il numero più potentemente magico.

7 i giorni della settimana, 7 le virtù e i vizi capitali, 7 i Sacramenti, 7 le braccia del candelabro ebraico, 7 gli attributi fondamentali di Allah, 7 è numero della perfezione nell’Islam, 7 i Chakra, 7 il numero della completezza nel Buddismo, 7 i sacramenti del cattolicesimo romano, 7 le chiese asiatiche dedicatarie dell’Apocalisse, 7 il numero associato al pianeta Nettuno, correlato a sua volta al misticismo, alla religione, alla solitudine, all’intuito e via via sette volte sette.

Forse a qualcuno può sembrare azzardata, o semplicemente tanto trascendentale e irrazionale, questa mia propensione a collegare il tutto. A collegare che siamo quello che mangiamo, che quello di cui ci nutriamo deve provenire da condizioni sane e pulite perché questo non ci condizioni negativamente, che anche il nostro umore o eventuali sensi di colpa nell’assunzione di cibi o bevande possano esercitare influssi negativi sul nostro organismo.

Non voglio sconfinare in esasperazioni new age che non amo granché, vorrei invece perseguire questa linea di pensiero, perché non a caso da vent’anni mi occupo di cibo e, vi garantisco, fosse stato per mere ragioni commerciali, negli anni, avrei già fatto altro.

Se avete voglia raccontatemi le vostre idee in merito, sarò felice di leggervi

Luisa

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